Quale futuro per gli Europei in UK dopo la Brexit?
Il mantra di Theresa May ormai e’ noto a tutti: “Brexit means Brexit”. Una dichiarazione d’intenti che vorrebbe sottolineare l’ineluttabilità del processo avviato a seguito del voto del 23 giugno scorso, quando il 52% dei sudditi di Sua Maestà ha votato per la fuoriuscita del Regno Unito dall’Unione Europea, ma le cui conseguenze, per i cittadini Britannici che risiedono in Europa, e soprattutto per i circa 3 milioni di Europei che risiedono nel Regno Unito, sono quanto meno incerte.
Se infatti a livello politico – istituzionale il dibattito, teso ed acceso, entro i confine britannici verte essenzialmente sull’opportunità di implementare una Brexit hard o soft, mentre a livello internazionale si risolve in un sostanziale muso contro muso tra i partner europei che cercano di mantenere la linea dura e i britannici che dalla Brexit vorrebbero solo gli aspetti egoisticamente vantaggiosi del divorzio, di fatto, al di là dei toni minacciosi, da entrambi i lati della Manica regna sovrana l’incertezza più assoluta.
Uno stato di nebuloso mistero sul futuro, che pure riguarderà tra gli altri quasi 600.000 italiani, che a vario titolo risiedono appunto nel Regno Unito, e per i quali presto potrebbe prospettarsi una situazione decisamente diversa rispetto a quanto, per alcuni ormai tanti anni fa, avevano creduto di trovare in un Paese all’apparenza accogliente, multietnico e pronto ad investire sulla diversità.
Poi, come un fulmine a ciel sereno, o meglio come un vero uragano, di quelli che generalmente colpiscono isole immerse in tutt’altri mari, arriva la Brexit a spazzare via i sogni, a seminare dubbi ed incertezze, a far venire voglia di fare le valigie.
Di certo, infatti, c’è solo che anche al termine dei due anni previsti per il negoziato sull’implementazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, per i cittadini comunitari che risiedono in Inghilterra (ma anche in Scozia Irlanda del Nord e Galles) non si sa cosa accadrà, cosa ne sarà delle loro proprietà, del lavoro, della casa, del diritto all’assistenza sanitaria… fino alla possibile revoca della patente. Tutti temi che dovranno formare oggetto di regolamentazione successiva, tra legislazione interna ed accordi bilaterali con i Paesi di provenienza.
E’ in questo clima di dubbi e timori che l’unica certezza contro una posizione di potenziale illegalità è la zattera della corsa alla legalizzazione della propria posizione nel Paese ospitante, la ormai nota a tutti gli expat Permanent Residency, ovvero la certificazione che attesta il diritto alla residenza permanente nel Paese ospitante, per chi possa dimostrare di aver qui risieduto in maniera continuativa per almeno 5 anni dalla data della richiesta.
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Ecco i link utili:
Una contromisura sulla carta facile se non fosse che già il modulo da compilare è di 85 pagine – anche se il sito del governo britannico tiene a precisare di stampare e compilare solo quanto applicabile alla propria posizione – cui aggiungere una documentazione in allegato di portata faraonica, e soprattutto l’assoluta incertezza sul possibile esito della richiesta, troppe volte – a detta delle testimonianze di chi ci ha provato – dipendente dall’interpretazione (o secondo molti semplicemente dall’umore) dell’impiegato che ha in carico la propria pratica. Sui vari social si sprecano i gruppi spontanei di europei che disperati sottopongono al vaglio della rete la propria esperienza, le risposte di diniego della certificazione supportate da motivazioni che a volte rasentano il surreale, l’esito opposto a fronte di posizioni identiche, come se alla base di tutto ci fosse un preciso intento di scoraggiare tale richiesta. Molti addirittura testimoniano di aver ricevuto un chiaro invito a fare le valigie e tornare a casa.
Il The Guardian, da sempre europeista e sensibile alle sorti dei cittadini comunitari, ha nominato un’apposita corrispondente per la Brexit e dedica al tema numerosi dibattiti ed approfondimenti, incluso un podcast settimanale: nel corso della puntata andata in onda il 16 gennaio c’è stato l’intervento di Andrew Tingley, avvocato specializzato proprio in immigrazione, che a proposito delle sorti dei cittadini europei ha usato toni di estremo timore, a nightmare scenario come lo ha descritto riportando quanto avvenuto a suoi clienti, trattati alla stregua di cittadini extracomunitari, cui è stato rifiutato il rilascio della Permanent Residency e ingiunto – da parte della societa’ privata Capita, cui l’Home Office ha appaltato il servizio – di tornarsene a casa in tempi brevi.
Insomma, uno scenario non solo incerto ma quasi apocalittico, che tiene in sospeso il destino di tre milioni di europei le cui sorti potrebbero diventare strumento di efferata negoziazione e che all’Europa, ed ai valori che rappresenta, chiedono supporto. L’auspicio è che delle linee guida vengano già impartite dalle ambasciate, seppur questo non rientri tra i loro compiti più stretti, ma al momento viste come le uniche in grado di allargare la maglia del consenso attraverso un fronte comune che superi i nazionalismi e difenda i valori dell’Europa ed i diritti cui quei tanti connazionali hanno creduto.
Il proliferare di iniziative social ha infatti, per contrasto, messo in evidenza il vuoto di rappresentanza, l’assenza di linee guida, di consulenza legale ai propri cittadini, di servizi informativi, in una parola di un fronte comune a difesa di quei valori che rappresentano l’Europa unita, e che la Brexit vorrebbe minare.
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Manuela Travaglini
The Italian Community